1 (Aprile)

Il di primo di aprile, un'ora avanti giorno, le campane e il tamburo davano l'allarme animando i cittadini a combattere. Il nemico eseguì diverse sortite dal Castello: una dalla parte di S. Pietro, abbandonato dai nostri, e da esso saccheggiato, scendendo per lo spalto che conduce a Torrelunga: un'altra verso la Carità, dalla parte di S. Urbano: la terza per le rovine delle case che fiancheggiano la salita del Castello e per gli orti di quelle che sboccano a Porta Bruciata.

Molte truppe con cannoni erano appostate a Torrelunga, tutte l'altre circondavano la città. I bresciani furono tutt'altro che avviliti da questi apparecchi di guerra. Allo spuntare del giorno (era domenica delle Palme e molto sangue si doveva versare nella misera Brescia) le artiglierie del Castello, cui rispondevano quelle di Torrelunga ripresero il solito metro.

La zuffa si appiccò in ogni punto. Le truppe che scendeano dal Castello per gli spalti dietro il Seminario si unirono a quelle di Torrelunga ed una parte si avanzo verso il mercato delle biade, un'altra prese la via degli spalti che conducono a porta S. Alessandro, un'altra la via del pubblico giardino. I cittadini si ritraevano da barricata a barricata, sempre combattendo e facendo costar cara la sua temerità ad un nemico che alla rapina e agli incendi meglio pensava che a combattere.

Molti soldati austriaci caddero colpiti dalle palle bresciane; molti ufficiali ed un colonnello furono gravemente feriti, un maggiore ucciso. Il gen. Nugent per grave ferita, morì pochi giorni dopo. Ciò accadeva nella via che da Torrelunga conduce a S. Barnaba; ed è fama che da una finestra di quella, una giovinetta di condizione civile, con una carabina, al maneggio della quale erasi all'uopo addestrata, sparando sull'abborrito austriaco, colpisse il colonnello, due ufficiali e molti soldati. Questa eroina bresciana e di presente lontana dalla patria.

Inontratasi dai nemici una resistenza tanto accanita, essi dovettero retrocedere a Torrelunga, portando seco i loro morti e feriti. Quelli che avevano preso la via degli spalti, altri discesi ai Cappuccini, altri al Pozzo di S. Afra vennero a Porta S. Alessandro.

Il tedesco, oltre il consueto saccheggio, uccideva quanti incontrava per le vie e nelle case a colpi di fucile o di baionetta. Alcuni sgozzava sul luogo, trascinava altri sullo spalto vicino perché venisse colà fucilato. Non pochi arsi vivi impeciandone le membra e le vesti di trementina. E questi infelici erano per la maggior parte fra i più indigenti, ammalaticci, inabili, nonché a difendersi a fuggire. Molte case furono incendiate fuori Porta S. Alessandro e al principiare del Borgo di questo nome; alcune agli spalti che dalla porta conducono al pozzo di S. Afra.

 

Dalla banda di Torrelunga, nella via che dalla porta conduce al giardino molte case furono parimenti abbruciate fra cui il caffè e la spezieria ed altre che fiancheggiano lo stesso giardino.

Prima uccidevasi o si maltrattava chi v'era, poscia, asportato il bello e il buono, e guasto ciò che non poteasi rubare, si dava mano al fuoco.

Disperata difesa incontrarono anche i discesi alla Carità, ond'è che quivi pure si uccideva, si incendiava e si rubava. A Porta Bruciata furono sgozzati due infelici giacenti in letto per grave malattia ed un settuagenario che scendeva da una scala per salvarsi. Un altro si uccise a colpi di fucile sotto gli occhi della propria moglie e di due figli mentre nascondevasi fra il letto e il muro. Alcuni di questi assassini, (rifugge l'animo a dirlo) portavano il nome di italiani e facevano parte del reggimento Sigismondo. Tra costoro fuvvi chi scrisse sui muri di quelle case: Morte ai Bresciani; viva Pepe; viva Venezia ! Codesti macelli italo-croati durarono sino all'undici del mattino, non senza grande uccisione di nemici, i quali non poterono mai oltrepassare Porta Bruciata e S. Faustino in riposo attesa la resistenza dei nostri prodi che dalle case Bodeo e Faccanoni e dall'osteria del Frate, con un fuoco continuato molti ne facevano cadere. I discesi dalla Carità trovarono un'eguale resistenza al volto della delegazione, ma per la porta di dietro, entrarono in Broletto, e di quivi e sin dalla Torre tempestavano i muri della piazza del Duomo.

Tra queste durissime strette, in quelle parti di città ove non combatteasi regnava un cupo silenzio, non interrotto che dal tuonar dei cannoni e dallo scoppio delle bombe che tratto tratto incendiavano qualche casa. Gli animi erano lacerati da profonda tristezza, nessuno aggiravasi per le vie, nessuno s'affacciava ai balconi.

Giunse avviso che diecimila austriaci marciavano sopra Brescia; che la costoro avanguardia erasi battuta all'Ospitaletto colla gente del Camozzi, il quale si era ritirato verso Gussago. Allora si conobbe l'inutilità di una difesa, ch'erasi fatta nella persuasione che l'Austriaco fosse stato sconfitto, e si penso dal Dirigente, che solo, con quattro cittadini e un portiere, era rimasto in ufficio, di venire ad una capitolazione con (Haynau).

Lo scrivente adunque, uno dei quattro cittadini, venne incaricato di recarsi al convento di S. Giuseppe per chiedere due di quei frati da spedirsi all'uopo in Castello, come mediatori tra il feroce Maresciallo e l'eroica e infelicissima Brescia. Dopo lungo scampanellare si aperse finalmente la porta del convento e il messo municipale fu condotto in sagrestia ove tutti i frati erano raccolti, tranne il guardiano, che si disse essere in chiesa ad orare. Fattolo cercare né colà si rinvenne né altrove. Espostasi allora l'ambasciata al P. Maurizio da Brescia, questi rispose che assai di buon grado accettava l'incarico tenendosi per onorato di sacrificare anche la vita a vantaggio dei propri concittadini.

Si trattò allora di dare a questo padre un compagno. Lo scrivente si rivolse ad un frate panciuto che gli stava da presso e lo esortò ad accompagnare il p. Maurizio in Castello. Costui, esterefatto, esclamò, interrompendolo: Io?… Io andare in Castello? Le costui parole e il gesto che le accompagnò, mossero al riso lo scrivente il quale soggiunse senza più: è troppo giusto che vostra paternità si conservi pel... coro! Ma un giovine e garbato fraticello s'offrì spontaneamente a compagno del padre Maurizio e s'andò di conserva al Municipio.

Per andare in Castello era mestieri prima di tutto far cessare il fuoco che vivo ancora mantenevasi a piè della salita che conduce in Castello, onde i frati potessero presentarsi al nemico con segni di pace. Mentre deliberavasi a chi dar l'incarico di annunciare a' combattenti la presa determinazione, ecco il prete Moro col cappello triangolare, ornato di cordoni e mappe d'oro, con veste talare e sopravi affibbiata una spada, entrare nella sala ed esporre: essere cosa molto pericolosa il far sospendere le ostilità; i Bresciani non voler cedere a patto nessuno; esporsi a morte sicura chi avesse soltanto ardito proporlo; voler tutti patire l'ultimo sterminio, piuttosto che arrendersi da vili al nemico!

Le nostre bande per altro che aveano combattuto sui Ronchi e presso le mura si erano ritirate, parte sui monti, parte verso Gussago per unirsi ai volontari del Camozzi. Il Comitato di difesa erasi posto in salvo, ma per grave trascuranza, dimenticò nel suo ufficio i registri e le corrispondenze indicanti le somministrazioni di armi e denari e li incarichi affidati a diverse persone; trascuranza che fornì all'Austriaco i mezzi di commettere sevizie contro tanti bravi cittadini.

Mentre tuttavia incerto era il partito da prendere si presentò nella sala una mano di armati alla cui testa era il beccaio Maraffio; abbassate le armi in faccia ai pochi rimasti, si fecero essi ad esporre: come erano colà venuti per chiedere una pronta giustizia. Non essere conveniente, dicevano, che mentre da loro si era esposta e si esponeva la vita a prò della patria, le spie, già sostenute e che avevano rovinato la santa causa, vendendoci all'oro austriaco, si serbassero in

vita, affinchè entrato il nemico in città ad esso si palesassero i nomi di chi avea combattuto contro di lui.

Addimandare quindi al signor Dirigente che costoro fossero giudicati e fucilati. A sì strana richiesta il Sangervasio s'accontentò di rispondere con ambigue parole che cotesto giudizio spettava al Comitato di pubblica difesa nelle cui carceri stavano chiusi; ma l'oratore soggiunse, che scioltosi spontaneamente il Comitato i poteri a quello demandati ritornavano nelle mani del Municipio, da cui esigevasi la consegna delle spie. Il Sangervasio pensò allora di abbandonare il municipio, e scorta l'impossibilità di impor silenzio, anche per consiglio di chi era presente, dichiarò sciolto il consesso municipale, ordinando che si chiudessero le porte del palazzo. Ma quei furibondi, assetati di sangue, si misero a gridare, che più non essendovi autorità costituita in Brescia, il potere sovrano ricadeva nel popolo e che essi, come parte di questo popolo, che aveva con tanto valore combattuto, per la libertà della patria, si sarebbero costituiti in giudici ed esecutori.

Il p. Maurizio intimorito scorgendo impossibile la sua missione, chiese al Dirigente di essere condotto al suo convento. Mentre i frati attraversavano in compagnia di chi scrive, la via degli Orefici più frequenti si erano fatti i colpi di fucile, le cui palle ne sfiorarono la tonaca ed il cappuccio, onde fu mestieri sostare.

Anche in piazza Vecchia fischiava il piombo nemico e molti cittadini cadevano agli sbocchi di P. Bruciata e di strada Nuova.

La banda del Maraffio uscita dal palazzo municipale, si divise in due parti. Quella comandata dallo stesso Maraffio s'avviò al palazzo Bargnani e trattovi di carcere l'appaltatore Bruto e invitatolo a fuggire, non appena uscito dalla porta, il ferì a tergo con alcuni colpi di fucile e poscia lo mise in brani. Costui, uomo danaroso e sedicente proprietario di una casa fuori degli spalti di Porta Pile, presso la Postierla del Castello, per avidità di guadagno tradiva la patria, tenendo segreta corrispondenza col comandante dello stesso Castello. Dopo il Bruto, altre spie si sagrificarono dalla banda Maraffio, che si disperse in seguito per città.

L'altra banda, guidata da un compagno del Maraffio, invase le carceri di piazza Vecchia e, fatto sortire un capo commesso ai polizia, con due suoi dipendenti, fingendo anch'essa di lasciarli fuggire pel vicolo dietro le prigioni, li freddò parimente con una scarica a tergo; poscia entrata nelle prigioni immolò diverse ( altre ) persone, detenute come spie, sino al numero di undici risparmiando un venditore di liquori, per nascita tirolese. Fu desso, che accusando alla commissione militare, gli autori di questo delitto, ne cagionò la condanna alle forche. Cotesti esecutori, come si appellavano, della giustizia del popolo, non dissetati dal sangue delle spie, uccisero dopo anche un Sembrini, tintore, tenuto per confidente di polizia.

Mentre la banda Maraffio, composta dalla feccia del popolo e di ben note persone dalla polizia austriaca, commetteva questi assassini sotto pretesto di popolare giustizia, il dirigente Sangervasio, non essendosi potuto allontanare dal palazzo municipale, con soli tre o quattro che gli erano rimasti vicini, ed un mercante di cappelli che facea le funzioni di portiere, industriavasi di far cessare il fuoco per parte dei. Bresciani onde tentare trattative col nemico, da che disperata era la nostra causa. Saputosi dai pochi tuttavia combattenti che i loro compagni erano per la maggior parte o evasi o nascosti e che la vanguardia del corpo croato, che celermente veniva su Brescia, era già alla porta di S. Giovanni, si dispersero anch'essi. Si pensò allora a richiamare i due frati ed a spedirli in Castello ad ( Haynau ) ma nulla si ottenne da quel feroce!

Gli Austriaci entrati con sollecitudine in città, s'accamparono sulle due piazze, Vecchia e del Duomo; inoltrandosi poscia per le vie cominciarono a fare man bassa con quanti incontravano con armi o senza ed a cacciarsi per le case spogliandole di ogni cosa od abbruciando quello che non potevano rubare. Il generale ordinò immediatamente di sgomberare le vie dalle barricate, di rimettervi il selciato, di consegnare i prigionieri.

Questi prigionieri, condotti nella sala maggiore del Municipio, lautamente banchettati, furono messi in libertà. La sera il Dirigente unì a straordinario Consiglio que' pochi cittadini che gli fu dato raccogliere e che nella sventura non aveano abbandonata la misera città.

Onore a chi non venne meno ai bisogni della patria e dopo averla difesa sino all'estremo dovette od esulare da lei o sopportare il carcere e la multa.

Quella sera istessa, il sig. Anelli, relatore della Congregazione provinciale, assunse le redini del governo presiedendo al piccolo consiglio convocato dal Dirigente, onde avvisare a mezzi di saziar prontamente l'ingordigia d'( Haynau ). Il consiglio durò sino a notte avanzata e chi lo componeva, dovendo attraversare la piazza, ov'erano accampati i croati, si fece scortare da' gendarmi sino alla propria casa. Così trascorse il primo aprile giorno della palme, ed ebbe fine con esso la rivoluzione bresciana.


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